Giacomo Leopardi — Sopra il monumento di Dante

Perchè le nostre genti Pace sotto le bianche ali raccolga, Non fien da’ lacci sciolte De l’antico sopor l’itale menti S’a i patri esempi de la prisca etade Questa terra fatal non si rivolga. O Italia, a cor ti stia Far ai passati onor, che d’altrettali Oggi vedove son le tue contrade, Nè c’è chi d’onorar ti si convegna. Volgiti indietro, e guarda, o patria mia, Quella schiera infinita d’immortali, E piangi e di te stessa ti disdegna; Che se non piangi, ogni speranza è stolta: Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti, E ti punga una volta Pensier de gli avi nostri e de’ nipoti. D’aria e d’ingegno e di parlar diverso Per lo toscano suol cercando gia L’ospite desioso Dove giaccia colui per lo cui verso Il meonio cantor non è più solo. Ed (oh vergogna) udia Che non che ’l cener freddo e l’ossa nude Giaccian esuli ancora Dopo il funereo dì sott’altro suolo, Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso, Firenze, a quello per la cui virtude Tutto il mondo t’onora. Oh voi pietosi, onde si tristo e basso Obbrobrio laverà nostro paese: Bell’opra hai tolta e di ch’amor ti rende, Schiera prode e cortese, Qualunque petto amor d’Italia accende. Amor d’Italia, o cari, Amor di questa misera vi sproni, Ver cui pietade è morta In ogni petto omai, perciò che amari Giorni dopo il seren dato n’ha il cielo. Spirti v’aggiunga e vostra opra coroni Misericordia, o figli, E duolo e sdegno di cotanto affanno Onde bagna costei le guance e ’l velo. Ma voi di quale ornar parola o canto Si debbe, a cui non pur cure o consigli, Ma de l’ingegno e de la man daranno I sensi e le virtudi eterno vanto Oprate e mostre ne la dolce impresa? Quali a voi note invio, sì che nel core, Sì che ne l’alma accesa Nova favilla indurre abbian valore? Voi spirerà l’altissimo subbietto, Ed acri punte premeravvi al seno. Chi dirà l’onda e ’l turbo Del furor vostro e de l’immenso affetto? Chi pingerà l’attonito sembiante? Chi de gli occhi il baleno? Qual può voce mortal celeste cosa Agguagliar figurando? Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante Lagrime al chiaro avello Italia serba. Come cadrà? come dal tempo ròsa Fia vostra gloria o quando? Voi, di che ’l nostro mal si disacerba, Sempre vivete, o care arti divine, Conforto a nostra sventurata gente, Fra l’itale ruine Gl’itali pregi a celebrare intente. Ecco voglioso anch’io Ad onorar nostra dolente madre Porto quel che mi lice, E mesco a l’opra vostra il canto mio Sedendo u’ vostro ferro i marmi avviva. O de l’etrusco metro inclito padre, Se di cosa terrena, Se di costei che tanto alto locasti Qualche novella a i vostri lidi arriva, Io so ben che per te gioia non senti, Chè saldi men che cera e meri ch’arena, Verso la fama che di te lasciasti, Son bronzi e marmi; e da le nostre menti Se mai cadesti ancor, s’unqua cadrai, Cresca, se crescer può, nostra sciagura, E in sempiterni guai Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura. Ma non per te; per questa ti rallegri Povera patria tua, s’unqua l’esempio De gli avi e de’ parenti Ponga ne’ figli sonnacchiosi ed egri Tanto valor che un tratto alzino il viso. Quale e da quanto scempio Vedi guasta colei che si meschina Te salutava allora Che di nuovo salisti al paradiso: Allor beata pur (qualunque intende A’ novi affanni suoi) donna e reina; Ch’or nulla, ove non fòra Somma pietade assai, pietade attende. Taccio gli altri nemici e l’altre doglie; Ma non la più recente e la più fera, Per cui presso a le soglie Vide la patria mia l’ultima sera1. Beato te che ’l fato A viver non dannò fra tanto orrore; Che non vedesti in braccio L’itala moglie a barbaro soldato; Non predar non guastar cittadi e còlti L’asta inimica e ’l peregrin furore; Non de gl’itali ingegni Tratte l’opre divine a miseranda Schiavitude oltre l’alpe, e non de’ folti Carri impedita la dolente via; Non gli aspri cenni ed i superbi regni; Non udisti gli oltraggi e la nefanda 115Voce di libertà che ne scherma Tra ’l suon de le catene e de’ flagelli. Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto Che lasciaron quei felli? Qual tempio, quale altare o qual misfatto? Perchè venimmo a sì perversi tempi? Perchè ’l nascer ne désti o perchè prima Non ne désti il morire, Acerbo fato? onde a stranieri ed empi Nostra patria vedendo ancella e schiava, E da mordace lima Roder la sua virtù, di null’aita E di nullo conforto Lo spietato dolor che la stracciava Ammollir ne fu dato in parte alcuna. Ahi non il sangue nostro e non la vita Avesti, o cara, e morto Io non son per la tua cruda fortuna. Qui l’ira al cor, qui la pietade abbonda: Pugnò, cadde gran parte anche di noi; Ma per la moribonda Italia no; per li tiranni suoi. Padre, se non ti sdegni, Mutato se’ da quel che fosti in terra. Morian per le rutene Squallide piagge, ahi d’altra morte degni, Gl’itali prodi; e lor fea l’aere e ’l cielo E gli uomini e le belve immensa guerra. Cadeano a squadre a squadre Semivestiti, maceri e cruenti, Ed era letto a gli egri corpi il gelo. Allor, quando traean l’ultime pene, Membravan questa desiata madre, Dicendo: oh non le nubi e non i venti, Ma ne spegnesse il ferro, e pel tuo bene, O patria nostra. Ecco da te rimoti, Quando più bella a noi l’età sorride, A tutto il mondo ignoti, Moriam per quella gente che t’uccide. Di lor querela il boreal deserto E conscie fur le sibilanti selve. Così vennero al passo, E i negletti cadaveri a l’aperto Su per quello di neve orrido mare Dilaceràr le belve; E sarà ’l nome de gli egregi e forti Pari mai sempre ed uno Con quel de’ tardi e vili. Anime care, Ben che infinita sia vostra sciaura, Datevi pace; e questo vi conforti Che conforto nessuno Avrete in questa o ne l’età futura. In seno al vostro smisurato affanno Posate, o di costei veraci figli, Al cui supremo danno Il vostro solo è tal che rassomigli. Di voi già non si lagna La patria vostra, ma di chi vi spinse A pugnar contra lei Sì ch’ella sempre amaramente piagna E ’l suo col vostro lagrimar confonda. Oh di costei, che tanta verga strinse, Pietà nascesse in core A tal de’ suoi ch’affaticata e lenta Di sì torbida notte e sì profonda La ritraesse! O glorioso spirto, Dimmi: d’Italia tua morto è l’amore? Dì: quella fiamma che t’accese, è spenta? Dì: nè più mai rinverdirà quel mirto Ch’alleggiò per gran tempo il nostro male? E saran tue fatiche a l’aria sparte? Nè sorgerà mai tale Che ti rassembri in qualsivoglia parte? In eterno perì la gloria nostra? E non d’Italia il pianto e non lo scorno Ebbe verun confine? Io mentre viva andrò sclamando intorno, Volgiti a gli avi tuoi, guasto legnaggio; Mira queste ruine E le carte e le tele e i marmi e i templi; Pensa qual terra premi; e se destarti Non può la luce di cotanti esempli, Che stai? lévati e parti. Non si conviene a sì corrotta usanza Questa di prodi ingegni altrice e scola: Se d’infingardi è stanza, Meglio l’è rimaner vedova e sola.


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