Alessandro Manzoni — Del Trionfo della Libertà Canto II

Col pensier, con gli orecchi e con le ciglia I’era immerso in quell’altera vista, Come colui che tace e maraviglia; [3] Qual dicon che de’ Spirti in fra la lista, Stette mirando le magiche note Il furente di Patmo Evangelista. [6] Quand’io vidi la Dea, che su l’immote Maladette sorelle il cocchio spinse, E su le infami cigolar le rote, [9] Primamente un terror freddo mi strinse, Poi surse in petto con subita forza La letizia, che l’altro affetto estinse. [12] Qual se fiamma divora arida scorza Avidamente, e d’improvviso d’acque Talun l’inonda, subito s’ammorza, [15] Così sotto la gioja il timor giacque; Poi surse un novo di stupore affetto, E l’uno e l’altro moto in sen mi tacque. [18] Però ch’io vidi un bel drappello eletto Di Lor che sordi furo al proprio danno, Caldi d’amor di Libertade il petto. [21] Vidi colui che contro al rio Tiranno Fe’ la vendetta del superbo strupo, Poi che s’avvide del lascivo inganno, [24] E corse furioso, come lupo, Se mai rapace cacciator gli fura I cari figli dal natio dirupo. [24] E seco è Lei, che d’alma intatta e pura, Benché polluta ne la spoglia in vita, Lavò col sangue la non sua lordura. [30] Quei che ritolse ai figli suoi la vita, Poi che ne fero uso malvagio e rio, 33Immolando a la Patria, ostia gradita, L’affetto di parente, e dir s’udio: Quei che di fede a la sua patria manca 36Non è figlio di Roma, e non è mio. Siegue Quei che la destra ardita e franca Cacciò fremendo ne le fiamme pie, 39E fe’ tremar Porsenna colla manca. Ve’ la Vergin che corse a le natie Piaggie, fuggendo del Tiranno l’onte, 42Per le amiche del Tebro ospite vie. Ecco quel forte, che al famoso ponte Contra l’Etruria congiurata tenne 45Ferme le piante e immobile la fronte. E l’urto d’un esercito sostenne, E contra mille e mille lancie stette, 48Onde immortale a’ posteri divenne. Ma ben poria le più sottili erbette Annoverar nel prato e ’n ciel le stelle 51E le arene nel mar minute e strette Chi noverar volesse l’alme belle Ch’ivi eran, di valore inclito speglio, 54Sol de la Patria e di Virtute ancelle. Sorgea fra gli altri il generoso Veglio, Che involò del Tiranno ai sozzi orgogli 57La figlia intatta, e ben fu morte il meglio. Fu la figlia che disse al padre: Cogli Questo immaturo fior: tu mi donasti 60Queste misere membra, e tu le togli, Pria che impudico ardir le incesti e guasti; E in quello cadde il colpo, e impallidiro 63Le guancie e i membri intemerati e casti, E uscì dal puro sen l’ultimo spiro, Ed a la vista orribile fremea 66Il superbo e deluso Decemviro, Cui stimolava la digiuna e rea Libidine, e struggea l’insana rabbia, 69Che i già protesi invan nervi rodea; Qual lupo, che la preda perdut’abbia, Batte per fame l’avida mascella, 72Rugge, e s’addenta le digiune labbia. Quindi segue una coppia rara e bella, Che ria di ben oprar mercede colse 75Ahi! da la Patria troppo ingrata e fella. V’è quel grande che Roma ai ceppi tolse, Indi de l’Afro le superbe mine 78E le audaci speranze in lui rivolse: Per cui sovra le libiche ruine Vide Roma discesa al gran tragitto 81Il fulgor de le fiaccole Latine. E quei che Magno detto era ed invitto, Che, insiem con Libertà, spoglia schernita 84Giacque su l’infedel sabbia d’Egitto. V’era la non mai doma Alma, che ardita Temé la servitù più de la morte, 87Amò la Libertà più de la vita; Dicendo: Poi che la nimica sorte Tanto è contraria a Libertate, e invano 90La terribile armò destra quel forte, Alzisi omai la generosa mano, E l’alma fugga pria che servir l’empio, 93Ch’io nacqui e vissi e vo’ morir Romano. E seco è Lei, che con novello scempio Dietro la fuggitiva Libertate 96Corse animata dal paterno esempio. Quindi un drappel venia d’ombre onorate Sacre a la patria, che di sangue diro 99Ne spruzzar le ruine inonorate. Bruto primo sorgea, che torvi in giro Pria torse i lumi, indi a Roma gli volse, 102E da l’imo del cor trasse un sospiro. E a l’ombre circostanti si rivolse, In cui non fu la virtù patria doma, 105Indi la lingua in tai parole sciolse: Ahi cara Patria! Ahi Roma! ah! non più Roma, Or che strappotti il glorioso lauro 108Invida man da la vittrice chioma. Ov’è l’antico di virtù tesauro? Ove, ove una verace alma Latina? 111Ove un Curio, un Fabricio, ove uno Scauro? Ahi! de la Libertà l’ampia ruina Tutto si trasse ne la notte eterna, 114Ed or serva sei fatta di reina; Ché il celibe Levita ti governa Con le venali chiavi, ond’ei si vanta 117Chiuder la porta e disserrar superna. E i Druidi porporati: oh casta, oh santa Turba di Lupi mansueti in mostra, 120Che de la spoglia de l’agnel s’ammanta! E il popol reverente a lor si prostra In vile atto sommesso, e quasi Dii 123Gli adora e cole: oh sua vergogna e nostra! Che valse a me di sacri ferri e pii Armar le destre, e franger la catena? 126Lasso! e per chi la grande impresa ardii? Spento un Tiranno, un altro surse, piena Di schiavi de la terra era la Donna, 129Infin che strinse la temuta abena Quei che la Galilea dimessa donna Trasse dal fango, e i membri sozzi e nudi 132Vestì di tolta altrui fulgida gonna; E maritolla a’ suoi nefandi Drudi Incestamente, e al vecchio Sacerdote 135A la canna scappato e a le paludi, Che infallibil divino a le devote Genti s’infinse, che a la Putta astuta 138Prestaro omaggio e le fornir la dote. E nel Roman bordello prostituta, Vile, superba, sozza e scellerata 141Al maggior offerente era venduta. Ivi un postribol fece, ove sfacciata Facea di sé mercato, ed a’ suoi Proci 144Dispensava ora un detto, ora un’occhiata. Ma poi che ferma in trono fu, feroci Sensi vestì, l’armi si cinse, e infece 147D’innocuo sangue le mal compre croci. E sue ministre ira e vendetta fece, L’inganno, la viltà, la scelleranza, 150E fe’ sua legge: Quel che giova lece. Quindi la maladetta Intolleranza Del detto e del pensier, quindi Sofia 153Stretta in catene, e in trono l’Ignoranza. O ditel voi, che di saver sì ria Mercede aveste di sospiri e pianto 156Da l’empia de l’ingegno tirannia. O ditel voi, ch’io già non son da tanto; Gridino l’ossa inonorate, e il suono 159A l’Indo ne pervenga e al Garamanto. Questi i diletti de l’Eterno sono? Questi i ministri del divin volere? 162E questi è un Dio di pace e di perdono? Dillo, o gran Tosco, tu, che de le spere Librasti il moto, e a’ tuoi nepoti un varco 165Di veritate apristi e di sapere. Contra te i dardi dal diabolic’arco Sfrenò l’invidia, e contra i tuoi sistemi 168Indarno trasse in campo e Luca e Marco. Empj! che di ragione i divi semi Spegner tentaro ne gli umani petti, 171E colpirono il ver con gli anatemi. Van predicando un Nume, e a’ suoi precetti Fan fronte apertamente, e a chi gl’imita 174Fulminan le censure e gl’interdetti. Povera, disprezzata, umil la vita Quel che tu adori in Galilea menava, 177E tu suo servo in Roma un Sibarita. O greggia stolta, temeraria e prava, Che col suo Nume e con se stessa pugna; 180Di Dio non già, ma di sue voglie schiava. Altri nemico di se stesso impugna Crudo flagello, e il sangue fonde, e ’l fura, 183A la Patria, e de’ suoi dritti a la pugna, Devoto suicida, ed a la dura Verginità consacrasi, i desiri 186Soffocando e le voci di natura. Stolto crudel, che fai? de’ tuoi martiri Forse l’amante comun Padre frue? 189O si pasce di sangue e di sospiri? Oh stolto! Ei nel tuo core, Ei con le sue Dita divine la diversa brama 192Pose Colui, che disse “sia”, e fue. Ei con la voce di natura chiama Tutti ad amarsi, e gli uomini accompagna, 195E va d’ognuno al cor ripetendo: Ama. E tu fuggi colei che per compagna Ei ti diede, e i fratei credi nemici, 198E invan natura, invan grida e si lagna. E tal sotto i flagelli ed i cilici Cela i pugnali, e vassi a capo chino 201Meditando veleni e malefici. O degenere figlia di Quirino, Che i tuoi prodi obliando, al Galileo 204Cedesti i fasci del valor Latino, Questi sono i tuoi Cati, e in sul Tarpeo Dei nostri figli si fan scherno e gioco... 207Ma qui si tacque, e dir più non poteo; Ché tal la carità del natio loco Lo strinse, e sì l’oppresse, che morio 210La voce in un sospir languido e fioco. Quindi tra le commosse ombre s’udio Sorgere un roco ed indistinto gemito, 213Poscia un cupo e profondo mormorio; Sì come allor che con interno tremito Quassano i venti il suol che ne rimbomba, 216S’ode sonar da lunge un sordo fremito, Che tra le foglie via mormora e romba.


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