Alessandro Manzoni — Del Trionfo della Libertà Canto III

I tronchi detti e il lagrimoso volto Di quella generosa Anima bella 3Avean là tutto il mio pensier raccolto, Quando tutto a sé ’l trasse una novella Turba, che di rincontro a me venia, 6D’abito più recente e di favella. Confuso e irresoluto io me ne gìa, Com’uom che in terra sconosciuta mova, 9Che lento lento dubbiando s’avvia. Ed erano color che per la nova Libertade s’alzar fra l’alme prime, 12Di sé lasciando memoranda prova. Grandeggiava fra queste una sublime Alma, come fra ’l salcio umile e l’orno 15Torreggian de’ cipressi alto le cime. Avea di belle piaghe il seno adorno, Che vibravan di luce accesa lampa, 18E fean più chiaro quel sereno giorno; Ché men rifulge il sol quando più avvampa, E sovra noi da lo stellato arringo 21L’orme fiammanti più diritte stampa. Allor ch’egli me vide il pie’ ramingo Traggere incerto per l’ignota riva, 24Meditabondo, tacito e solingo, A me corse, gridando: Anima viva, Che qua se’ giunta, u’ solo per virtute, 27E per amor di Libertà s’arriva; Italia mia che fa? di sue ferute È sana alfine? è in Libertate? è in calma? 30O guerra ancor la strazia e servitute? Io prodigo le fui di non vil alma, E nel cruento suo grembo ospitale 33Giacqui barbaro pondo, estrania salma. Né m’accolse nel seno il suol natale, Né dolce in su le ceneri agghiacciate 36Il suon discese del materno vale. Barbaro estranio tu? non son sì ingrate L’anime Italiane, e non è spento 39L’antico senso in lor de la pietate. Oh qual non fece Insubria mia lamento Più sul tuo fato, che sul suo periglio! 42Ahi! con lagrime ancor me ne rammento. E te, discinta e scarmigliata, figlio Chiamò, baciando il tronco amato e santo, 45E con la destra ti compose il ciglio. E adorò ’l tuo cipresso al quale accanto Il caro germogliò lauro e l’ulivo, 48Che i rai le terse del bilustre pianto. Li terse? Ahi no! ché a lei costonne un rivo, Che inondò i membri inanimati e rubri 51Di te, che ’n cielo e ne’ bei cor se’ vivo. Deh! resti a noi, dicean le rive Insubri, Deh! resti a noi, ma l’onorata spoglia 54Trasse Francia gelosa a’ suoi delubri. Ma de l’itala sorte, onde t’invoglia Tanto desio, come farò parola? 57Ché un seme di Tiranni vi germoglia. E sotto al giogo de la greve stola La gran Donna del Lazio il collo spinse, 60E guata le catene, e si consola. E Partenope serve a lei, che vinse In crudeltà la Maga empia di Colco, 63E de’ più disumani il grido estinse. Ed il Siculo e ’l Calabro bifolco Frange a crudo signor le dure glebe, 66E riga di sudore il non suo solco. Al mio dir disiosa urtò la plebe Un’ombra, sì com’irco spinge e cozza 69In su l’uscita le ammucchiate zebe. Avea i luridi solchi in su la strozza Del capestro, e la guancia scarna e smunta, 72E la chioma di polve e sangue sozza. E’ surse de le piante in su la punta, Come chi brama violenta tocca, 75E uno sciame d’affetti in sen gli spunta, Ed il cor sopraffatto ne trabocca Inondato e sommerso, e l’alma fugge 78Su la fronte, su gli occhi e su la bocca. Poi gridò: L’empia vive, e non l’adugge Il telo, che temuto è sì là giue? 81E ’l dolce lume ancor per gli occhi sugge? Né pur la pena di sue colpe lue, Ma vive, e vive trionfante, e regna: 84Regna, e del frutto di sue colpe frue. O tu, diss’io, che sì contra l’indegna Ardi, che in crudeltate al mondo è sola, 87Spiegami il duol che sì l’alma t’impregna. Più volte egli tentò formar parola, Ma sul cor ripiombò tronca la voce; 90Che ’l duol la sospingeva ne la gola; Sì come arretra il suo corso veloce, E spumeggia e gorgoglia onda restia, 93Se impedimento incontra in su la foce. Ma poi che vinse il duol la cortesia, E per le secche fauci il varco aperse, 96E fu spianata al ragionar la via, Gridò: Tu vuoi ch’io fuor dal seno verse Il duol, che tanto già mi punse e punge, 99Se pur si puote anco qua su dolerse. Ma in quale arena mai grido non giunge Di sua nequizia e de’ fatti empi e rei? 102E sia pur, quanto esser si voglia, lunge. Io di sua crudeltà la prova fei, E giacqui ostia innocente in su l’arena, 105Per amor de la Patria e di Costei, Di ciò l’alma e la bocca ebbi ognor piena, Che a me fu sempre fida stella e duce, 108Ed or mi paga la sofferta pena. Poi che apparve un’incerta e dubbia luce Sovra l’Italia addormentata, e sparve, 111Onde la notte nereggiò più truce, E una benigna Libertade apparve, Che al duro appena ci rapì servaggio, 114Indi sparì come notturne larve, Io corsi là, com’a un lontano raggio Correndo e ansando il pellegrin s’affretta, 117Smarrito fra ’l notturno ermo viaggio. Ahi breve umana gioja ed imperfetta! Venne, con l’armi no, con le catene 120Una ciurma di schiavi maladetta. E gli abeti secati a le Rutene Canute selve del Cumeo Nettuno 123Gravaro il dorso, e ne radean le arene. Corse fremendo ed ululando il bruno Tartaro antropofàgo, che per fame 126Spalanca l’atro gorgozzul digiuno. E l’Anglo avaro, che mercato infame Fa de le umane vite, e in quella sciarra 129Lo spinsero de l’or le ingorde brame. Né più i solchi radea sicula marra, Né più la falce, ma le verdi biade 132Mieteva la cosacca scimitarra. E non bastar le peregrine spade; Ché la Patria ancor essa, ahi danno estremo! 135Vomitò contra sé fiere masnade. Ahi che in pensando ancor ne scoppio e fremo! Qual dal carcer sboccato e qual dal chiostro, 138Qual tolto al pastorale e quale al remo. Oh ciurma infame! e un porporato mostro Duce si fe’ de le ribelli squadre, 141Celando i ferri sotto al fulgid’ostro. Costor le mani violente e ladre Commiser ne la Patria, e tutta quanta 144D’empie ferite ricovrir la madre. Di Libertà la tenerella pianta Crollar, sì come d’Eolo irato il figlio 147L’aereo pin da le radici schianta. Poscia un confuso regnava bisbiglio, Un sordo mormorar fra denti ed una 150Paura, un cupo sovvolger di ciglio; Come allor che da lunge il ciel s’imbruna, Siede sul mar, che a poco a poco s’ange, 153Una calma che annunzia la fortuna; Mentre cigola il vento, che si frange Tra le canne palustri, e cupo e fioco 156Rotto dai duri massi il fiotto piange. Ma surse irata la procella, poco Durò la calma e quel servir tranquillo; 159Sangue al pianto successe e ferro e foco. E l’aer muto ruppe acuto squillo Annunziator di stragi, e sulla torre 162L’atro di morte sventolò vessillo. Il furor per le vie rabido scorre, E con grida i satelliti, e con cenni 165Incora e sprona, e a nova strage corre. Allor s’ode uno strider di bipenni, Un cupo scroscio di mannaje. Ahi come 168Oltre veder con questi occhi sostenni! Chi solo amò di Libertate il nome, O appena il proferì, dai sacri lari 171Strappato e strascinato è per le chiome. Ai casti letti venian que’ sicari, Qual di lupi digiuni atro drappello, 174D’oro e di sangue e di null’altro avari. E invan le spose al violato ostello, Di lagrime bagnando il sen discinto, 177Fean con la debil man vano puntello; Ché fin fu il ferro, ahimè! cacciato e spinto Entro il seno pregnante: oh scelleranza! 180E il ferro, il ferro da l’orror fu vinto. Gli empj no, che con fiera dilettanza Pascean gli sguardi disiosi e cupi, 183E fean periglio di crudel costanza. E i pargoletti a que’ feroci lupi Con un sorriso protendean le mani, 186Con un sorriso da spetrar le rupi. Ed essi, oh snaturati! oh in volti umani Tigri! col ferro rimovean l’amplesso, 189E fean le membra tenerelle a brani. Non era il grido ed il sospir concesso; Era delitto il lagrimar, delitto 192Un detto, un guardo ed il silenzio istesso. Morte gridava irrevocando editto. La coronata e la mitrata stizza 195L’avean col sangue d’innocenti scritto. Intanto a mille eroi l’anima schizza Dal gorgozzule oppresso, e brancolando 198Il tronco informe su l’arena guizza. Anelando, fremendo, mugolando Gli spirti uscien da’ straziati tronchi, 201Non il lor danno, ma il comun plorando. Ivi sorgean due smisurati tronchi, Cui l’adunato sangue era lavacro, 204E d’intorno eran membri e capi cionchi. Quinci era il tronco infame a morte sacro, Irto e spumoso di sanguigna gruma, 207Quindi stava di Cristo il simulacro; E il percotea la fluttuante schiuma, Che fea del sangue e de la tabe il lago, 210Che ferve e bolle e orrendamente fuma. Fiero portento allor si vide, un vago Spettro spinto da voglia empia ed infame 213Lieto aggirarsi intorno al tristo brago. Avidamente pria fiutò il carname, E rallegrossi, e poi con un sogghigno 216Guatò de’ semivivi il bulicame. Quindi il muso tuffò smilzo ed arcigno, E il diguazzò per entro a la fiumana, 219E il labbro si lambì gonfio e sanguigno. Come rabido lupo si distana, Se a le nari gli vien di sangue puzza, 222E ringhia e arrota la digiuna scana, E guata intorno sospicando, e aguzza Gli orecchi e ognor s’arretra in su i vestigi, 225Così colei, che di sua salma appuzza Le viscere cruente di Parigi, Rigurgitando velenosa bava, 228La barbara consorte di Luigi, Venia gridando: Insana ciurma e prava, Che noi di crudi e di Tiranni incolpe, 231E al regno agogni, nata ad esser schiava, Godi or tuoi dritti, e de le nostre colpe Il fio tu paga, e sì dicendo morse 234Le membra, e rosicchiò l’ossa e le polpe. Indi da l’atro desco il grifo torse Gonfia di sangue già, ma non satolla, 237Quando novo spettacolo si scorse. Venia uno stuolo di Leviti, colla Faccia di rabbia e di furor bollente, 240E inzuppata di sangue la cocolla. Ciascun reca una coppa, e d’innocente Sangue l’empiero, e le posar su l’ara. 243E lo vide e ’l soffrì l’Onnipossente! E disser: Bevi, e fean quegli empj a gara. Danzava intorno oscenamente Erinni, 246E scoteva la cappa e la tiara. E i profani s’udian rochi tintinni De’ bronzi, e l’aria, con le negre penne, 249Gl’infernali scotean diabolic’inni. Bramata alfine ed aspettata venne A me la morte, ed il supremo sfogo 252Compì su la mia spoglia la bipenne. Allora scossi l’abborrito giogo, E, l’ali aprendo a la seconda vita, 255Rinacqui alfin, come fenice in rogo. Ed ancor tace il mondo? ed impunita È la Tigre inumana, anzi felice, 258E temuta dal mondo e riverita? Deh! vomiti l’accesa Etna l’ultrice Fiamma, che la città fetente copra, 261E la penetri fino a la radice. Ma no: sol pera il delinquente, sopra Lei cada il divo sdegno e sui diademi, 264Autori infami de l’orribil’opra. E fin da lunge ne’ recessi estremi, Ove s’appiatta, e ne’ covigli occulti 267L’oda l’empia Tiranna, odalo e tremi. E disperata mora, e ai suoi singulti Non sia che cor s’intenerisca e pieghi, 270E agli strazj perdoni ed a gli insulti, O dal Ciel pace a l’empia spoglia preghi; Ma l’universo al suo morir tripudi, 273E poca polve a l’ossa infami neghi. E l’alma dentro a le negre paludi Piombi, e sien rabbia assenzio e fel sua dape, 276E tutto Inferno a tormentarla sudi, Se pur tanta nequizia entro vi cape.


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