Alessandro Manzoni — Del Trionfo della Libertà Canto IV

Tacque ciò detto, e su l’enfiate labbia Gorgogliava un suon muto di vendetta, 3Un fremer sordo d’intestina rabbia. E le affollate intorno ombre, “vendetta” Gridar, “vendetta”, e la commossa riva 6Inorridita replicò “vendetta”. I torbid’occhi il crino a lui copriva; Fascio parea di vepri o di gramigna, 9Onde un’atra erompea luce furtiva; Come veggiamo il sol, se una sanguigna Nugola il raggio ne rinfrange, obbliqua 12Vibrar l’incerta luce e ferrugigna. Ahi di Tiranni ria semenza iniqua, De gli uomini nimica e di natura, 15Or hai pur spenta l’empia sete antiqua! Gonfia di sangue la corrente e impura Portò l’umil Sebeto, e de la cruda 18Novella Tebe flagellò le mura. Tigre inumana di pietate ignuda, Tu sopravvivi a’ tuoi delitti? un Bruto 21Dov’è? chi ’l ferro a trucidarti snuda? Questi sensi io volgea per entro al muto Pensier, che tutto in quell’orror s’affisse, 24Allor che venne al mio veder veduto D’Insubria il Genio, che le luci fisse In me tenendo, armoniosa e scorta 27Voce disciolse, e scintillando disse: Mortal, quello che udrai là giuso porta. Deh! gli alti detti a la mal ferma e stanca 30Mente richiama, o Musa, e mi sia scorta. Tu la cadente poesia rinfranca, Tu la rivesti d’armonia beata, 33E tu sostieni la virtù, che manca; Tu l’ali al pensier presta, o Diva nata Di Mnemosine, e fa’ che del mio plettro 36Esca la voce ai colti orecchi grata, E spargi i detti miei d’eterno elettro. Già, proseguiva, del real potere 39Sei sciolta, Insubria, e infranto hai l’empio scettro. Ché gli ubertosi colli e le riviere, Ove Natura a se medesma piace, 42No, che non son per le Tedesche fiere. Pace altra volta tu le desti, pace, O Tiranno, giurasti, e udir le genti 45Il real giuro, e lo credean verace. Ma di Tiranno fede i sacramenti Frange e calpesta, e la legge de’ troni 48Son gl’inganni, i spergiuri, i tradimenti. Venne in fin dai settemplici trioni, Da te chiamato, e da le fredde rupi 51Un torrente di bruti e di ladroni. Come in aperto ovile iberni lupi, Tal su l’Insubria si gittar quegli empi, 54Di sangue ghiotti, di rapine e strupi. Fino i sacri vestibuli di scempi Macchiaro e d’adulteri. Oh quali etati 57Fur mai feconde di siffatti esempi? Ma non fur quegli insulti invendicati, Né il vizio trionfò: l’infame tresca 60Franse il ferro e ’l valor: gli addormentati Spirti destarsi alfin, e la Tedesca Rabbia fu doma, e le fiaccò le corna 63La virtù Cisalpina e la Francesca. Torna, arrogante a questi lidi, torna; Qui roco ancor di morte il telo romba, 66Qui la tua morte appiattata soggiorna. Qui il cavo suol de’ sepolcri rimbomba De la tua pube, che ancor par che gema: 69Vieni in Italia, e troverai la tomba. Altra volta scendesti avido, e scema Ti fu l’audacia temeraria e sciocca: 72Rammenta i campi di Marengo, e trema. Ché la fatal misura ancor trabocca; Non affrettar de la vendetta il die, 75Il dì che impaziente è su la cocca. Pace avesti pur anco, e questa fie La novissima volta; in l’alemanno 78Confin le tigri tue frena e le arpie. Ma tu, misera Insubria, d’un Tiranno Scotesti il giogo, ma t’opprimon mille. 81Ahi che d’uno passasti in altro affanno! Gentili masnadieri in le tue ville Succedettero ai fieri, e a genti estrane 84Son le tue voglie e le tue forze ancille. Langue il popol per fame, e grida: “pane”; E in gozzoviglia stansi e in esultanza 87Le Frini e i Duci, turba, che di vane Larve di fasto gonfia e di burbanza, Spregia il volgo, onde nacque, e a cui comanda, 90A piena bocca sclamando: Eguaglianza; Il volgo, che i delitti e la nefanda Vita vedendo, le prime catene 93Sospira, e ’l suo Tiranno al ciel domanda. De l’inope e del ricco entro le vene Succian l’adipe e ’l sangue, onde Parigi 96Tanto s’ingrassa, e le midolle ha piene. E i tuoi figli? I tuoi figli abbietti e ligi Strisciangli intorno in atto umile e chino. 99E tal di risse amante e di litigi D’invido morso addenta il suo vicino, Contra il nemico timido e vigliacco, 102Ma coraggioso incontro al cittadino. Tal ne’ vizj s’avvolge, come ciacco Nel lordo loto fa; soldato esperto 105Ne’ conflitti di Venere e di Bacco. E tal di mirto al vergognoso serto Il lauro sanguinoso aggiunger vuole, 108Ricco d’audacia, e povero di merto. Tal pasce il volgo di sonanti fole: Vile! e di patrio amor par tutto accenso, 111E liberal non è che di parole. E questi studio d’allargare il censo Avito rode, e quel tal altro brama 114Di farsi ricco di tesoro immenso. Senti costui, che “morte, morte” esclama, E le vie scorre, furibonda Erinni, 117Di sangue ingordo, e dove può si sfama. Vedi quei, che sua gloria nei concinni Capei ripone. Oh generosi Spirti 120Degni del giogo estranio e de’ cachinni! Odimi, Insubria. I dormigliosi spirti Risveglia alfine, e da l’olente chioma 123Getta sdegnosa gli Acidalj mirti. Ve’ come t’hanno sottomessa e doma, Prima il Tedesco e Roman giogo, e poi 126La Tirannia, che Libertà si noma. Mira le membra illividite e i tuoi Antichi lacci; l’armi, l’armi appresta, 129Sorgi, ed emula in campo i Franchi Eroi. E a l’elmo antico la dimessa cresta Rimetti, e accendi i neghittosi cori, 132E stringi l’asta ai regnator funesta; Come destrier, che fra l’erbette e i fiori, Placido, in diuturno ozio recuba, 135Sol meditando vergognosi amori, Scote nitrendo la nitente giuba, Se il torpido a ferirlo orecchio giugne 138Cupo clangor di bellicosa tuba, E stimol fiero di gloria lo pugne, Drizza il capo, e l’orecchio al suono inchina, 141E l’indegno terren scalpe con l’ugne. Contra i Tiranni sol la cittadina Rabbia rivolgi, e tienti in mente fiso, 144Che fosti serva, ed or sarai reina. Disse e tacque, raggiandomi d’un riso, Che del mio spirto superò la forza, 147Così ch’io ne restai vinto e conquiso. Mi scossi, e la rapita anima a forza, Come chi tenta fuggire e non puote, 150Cacciata fu ne la mortale scorza. Io restai come quel che si riscote Da mirabile sogno, che pon mente 153Se dorme o veglia, e tien le ciglia immote. O Pieride Dea, che ’l foco ardente Ispirasti al mio petto, e i sempiterni 156Vanni ponesti a la gagliarda mente, Tu, Dea, gl’ingegni e i cor reggi e governi, E i nomi incidi nel Pierio legno, 159Che non soggiace al variar de’ verni. Tu l’ali impenni al Ferrarese ingegno, Tu co’ suoi divi carmi il vizio fiedi, 162E volgi l’alme a glorioso segno. Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi Fai de’ tuoi carmi, e trapassando pungi 165La vil ciurmaglia, che ti striscia ai piedi. Tu il gran Cantor di Beatrice aggiungi, E l’avanzi talor; d’invidia piene 168Ti rimiran le felle alme da lungi, Che non bagnar le labbia in Ippocrene, Ma le tuffar ne le Stinfalie fogne, 171Onde tal puzzo da’ lor carmi viene. Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne De l’arte sacra! Augei palustri e bassi; 174Cigni non già, ma Corvi da carogne. Ma tu l’invida turba addietro lassi, E le robuste penne ergendo, come 177Aquila altera, li compiangi, e passi. Invano atro velen sovra il tuo nome Sparge l’invidia, al proprio danno industre, 180Da le inquiete sibilanti chiome. Ed io puranco, ed io, Vate trilustre, Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume 183A me fo scorta ne l’arringo illustre. E te veggendo su l’erto cacume Ascender di Parnaso alma spedita, 186Già sento al volo mio crescer le piume. Forse, oh che spero! io la seconda vita Vivrò, se a le mie forze inferme e frali Le nove Suore porgeranno aita. [189] Ma dove mi trasporti, estro? mortali Son le mie penne, e periglioso il volo, Alta e sublime è la caduta; l’ali [192] Però raccogli, e riposiamci al suolo.


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